Etruschi: il popolo delle città

La città: formazione, strutturazione urbana e assetti politici

Bologna – 06/12/2019 – preview della mostra “Etruschi – Viaggio nelle Terre dei Rasna” organizzata da Electa al Museo di Civico Archeologico di Bologna (Roberto Serra / Iguana / Electa)

Estratto dal saggio Gli Etruschi oggi di Giuseppe Sassatelli, Cattedra di Etruscologia e Archeologia Italica dell’Università di Bologna,
tra i curatori della Mostra
Etruschi. Viaggio nelle terre dei Rasna
al 
Museo Civico Archeologico di Bologna
7 dicembre 2019 – 24 maggio 2020

Gli Etruschi sono il popolo delle città e questo è un elemento quasi identitario. Plutarco, nella vita di Camillo (16, 1-3), dice che tutta la regione anticamente occupata dagli Etruschi era “ricca di boschi, di pascoli per il bestiame e irrigata da fiumi. E aveva diciotto grandi e belle città, attrezzate per guadagni derivati dal lavoro e per un sontuoso tenore di vita…”, dove alla struttura urbana vengono collegati la feracità della campagna circostante, un’economia molto fiorente e un elevato benessere cittadino. E secondo Tito Livio (V 33, 7-11), quando gli Etruschi si attestarono al di fuori dell’Etruria, sia in area campana che in area padana, gli elementi caratterizzanti della loro presenza e della loro espansione furono la struttura urbana e una solida organizza- zione territoriale imperniata sulle città, al punto che in entrambe queste due aree costituirono una confede- razione di 12 città, tante quante erano quelle della loro madrepatria tirrenica, anch’esse riunite in una con- federazione o lega che si riuniva periodicamente nel santuario federale dislocato apud Volsinios (ora molto probabilmente riconosciuto a Campo della Fiera presso Orvieto), per prendere decisioni politiche e militari di interesse comune. Questa coerente tradizione storica trova una puntuale conferma nella documentazione archeologica. Con la prima età del Ferro (tra X e IX sec.), agli esordi della cultura villanoviana, la più antica cultura degli Etruschi, si registra infatti una rapida e improvvisa concentrazione del popolamento in vasti agglomerati proto-urbani, un evento straordinario che sovverte in modo radicale il precedente popolamento del Bronzo finale e apre la grande storia degli Etruschi.

Un’importante conferma della precocità e della solidità del fenomeno urbano (o proto-urbano) presso gli Etruschi ci viene dalla terminologia per definire la città nei suoi diversi aspetti e nelle sue articolazioni, com- binando gli assetti politici e istituzionali con le strutture urbanistiche. Questo lessico comprendeva il terminespura, avvicinabile al latino civitas e al greco polis, da intendersi come comunità organizzata; il termine cilth(e forse anche hi/hilar inteso come recinto sacro) a indicare l’arx; il termine methlum, assimilabile al latinourbs e forse al greco asty, per indicare una entità topografica e urbanistica; il termine rasna, avvicinabile al latino populus (greco politai?), che si riferiva alla parte dei cittadini atta alle armi, con una forte valenza socio-istituzionale; e infine il termine tuthina che significava comunità rurale (pagus in latino) dipendente dalla città, a sottolineare quella gerarchia territoriale che era un tratto caratteristico del fenomeno urbano. Nonostante qualche dubbio dovuto anche alla cronologia relativamente tarda di questi lemmi, tale sequenza terminologica ha ancora una sua sostanziale validità e risulta significativa, oltre che per le sue analogie col latino e col greco, soprattutto se paragonata a quel poco che conosciamo degli altri ambiti lessicali dell’etru- sco. Resta se mai da approfondire il rapporto tra spura e rasna, sul quale si registrano ancora incertezze con oscillazioni sul piano cronologico e soprattutto su quello degli ambiti e delle funzioni. Ci sono buone ragioni tuttavia per considerare lo spura come una comunità organizzata di cittadini, nell’accezione più ampia possi- bile, forse priva di una valenza territoriale precisa, dovendo comprendere sia gli abitanti della città che quelli dell’agro, in una prospettiva essenzialmente storica e culturale. Mentre rasna sembra assumere via via con- notati sempre più politici e istituzionali, identificando di fatto la città-stato nella pienezza giuridica dei suoi assetti. Da questo termine è derivata l’estensione di significato al nomen degli Etruschi (i Rasenna di Dionigi di Alicarnasso), molto probabilmente per il tramite della lega che riuniva i Duodecim Populi, all’interno della quale doveva essere mantenuta per le città che ne facevano parte la qualifica di rasna. Si può ipotizzare che ci fosse un legame tra il nome con cui questo popolo designava sé stesso e il significato istituzionale di questo lemma, legato alla configurazione politica delle comunità urbane pienamente strutturate, per cui i Rasenna (poi Rasna per la caduta della vocale intermedia) potevano essere effettivamente intesi come “quelli del rasna”, cioè il “popolo della città”. Tale nesso manterrebbe tutta la sua validità anche passando attraverso il nome miti-storico di un antico hegemon, appunto Rasenna. Questo termine poteva avere quindi un duplice significato, per cui ad esempio il rasunie di Pontecagnano (cat. 156) significa letteralmente “quello del rasna” da intendersi sia “quello della città”, come del resto era Pontecagnano, sia “quello degli Etruschi”, una indicazione di grande peso in un’area così lontana rispetto alla madrepatria tirrenica.

I vasti agglomerati della fase villanoviana sono giustamente etichettati come proto-urbani, perché non sono ancora delle poleis, in un’ottica greca; ma non sono neppure una semplice aggregazione di komai, cioè di villaggi, nonostante la loro debole coesione interna sul piano urbanistico. Della città futura hanno già il potenziale demografico, la disponibilità di un territorio e soprattutto una autorità politica centrale che è in grado di assumere decisioni comuni.

Il processo di costituzione dei grandi centri proto-urbani, pur apparendo straordinariamente unitario nelle sue linee generali, si realizza con modalità differenti e con soluzioni peculiari nei diversi siti, sia sotto il profilo cronologico che sul piano topografico. Alcuni di questi centri, come Caere e Tarquinia, emergono assai precocemente già nel X sec.; altri nel corso del IX e altri ancora solo più tardi. Ci sono poi centri che fin dal loro esordio si presentano unitari e dislocati su un unico pianoro, delimitato da ripidi pendii e quindi naturalmente difeso; ma ci sono anche centri che si dispongono in nuclei sparsi, talora anche topografica- mente ben distinti, per quanto ravvicinati. Il caso più chiaro è quello di Tarquinia dove l’insediamento della più antica fase villanoviana non occupa solo il pianoro della Civita, sede della successiva città storica, ma si estende anche a Poggio Cretoncini e a Monterozzi, che poi nel corso dell’VIII sec. vengono abbandonati. Lo stesso accade, anche per un maggior condizionamento geografico e ambientale, in molte proto-città dell’Etruria settentrionale (Chiusi in particolare, ma anche Vetulonia e Populonia), dove varie unità collinari relativamente vicine, ma distinte, concorrono a costituire unitariamente i rispettivi centri proto-urbani. Sotto questo profilo è ancora più significativo il caso di Felsina (Bologna), dove il popolamento della fase più antica (IX sec.) è dislocato in almeno quattro o forse cinque villaggi distinti, a distanza anche di qualche chilometro, ciascuno con i propri sepolcreti. Nel corso dell’VIII sec., proprio come a Tarquinia, questi villaggi si coagu- lano attorno ad uno di essi per costituire un’unica città. Sia nel caso di Tarquinia che nel caso di Bologna, nonostante l’allentata disposizione dei vari villaggi, il sistema è unitario, politicamente e storicamente, e già nel IX sec. si può parlare di una proto-città, se non altro per il fatto che le decisioni e le progettualità appaiono unitarie e comuni. Del resto, almeno nelle fasi iniziali, nemmeno i grandi pianori tufacei, sedi delle future città storiche, appaiono integralmente abitati, ma sono al contrario costituiti da gruppi di capanne lar- gamente distanziati, con ampie superfici libere destinate all’agricoltura e al pascolo. Non c’è insomma molta

differenza tra i villaggi distinti di Bologna e Tarquinia o di alcune aree dell’Etruria settentrionale e i diversi villaggi ugualmente distinti, anche se più ravvicinati, dei grandi pianori tufacei dell’Etruria meridionale. Negli uni e negli altri è ipotizzabile un assetto riconducibile alle curiae della Roma primitiva, intese come aggre- gazioni politico-religiose di uomini adulti, atti alle armi, non consanguinei, che si riconoscono in un antenato comune e che adottano sacra e ritualità funerarie fortemente identitarie, sempre comunque all’interno di un contesto politico unitario. Del resto un’articolazione interna di queste comunità in gruppi distinti trova molti riscontri nelle aree di sepoltura.

Sulla più antica fase di formazione dei centri proto-urbani qualche novità ci viene dall’area padana dove la comparsa di Verucchio si colloca ora in un contesto territoriale con diversi siti del Bronzo Finale, cosa che quantomeno attenua l’idea consolidata di un’emanazione diretta ed esclusiva di area medio-tirrenica e consente di riproporre l’ipotesi di una riorganizzazione interna alle comunità dell’area circostante, in un fenomeno dalle forti componenti locali in linea con quanto accade in Etruria. E questa novità riapre il pro- blema della formazione di Felsina, per la quale già era stato proposto qualcosa di analogo nella direzione di pensarla come esito di profonde trasformazioni dei precedenti assetti del Bronzo finale, pur senza escludere qualche arrivo dall’esterno, in un forte parallelismo con quanto accade in area tirrenica e anche in sintonia con quel primato cronologico a cui sembra alludere la sua qualifica di princeps Etruriae.

Oggi sappiamo qualcosa di più sullo sviluppo storico e urbanistico di questi grandi centri. A Veio, sull’altura di Piazza d’Armi, nello scorcio del VII sec., in concomitanza con una precoce e generalizzata pianificazione urba- nistica che regolarizza l’intera area, viene costruita una struttura palaziale, porticata su due lati, molto simile al palazzo di Acquarossa, decorata da un acroterio con l’immagine dell’antenato protettore della famiglia secondo la migliore tradizione aristocratica. Il palazzo sorge nelle vicinanze di un antico luogo di culto con due sepoltu- re, oggetto di venerazione antica e prolungata, e in prossimità del ben noto oikos, per il quale alla consolidata interpretazione di un tempio viene ora accostata quella di una struttura di rappresentanza per riunioni e pasti comuni. Residenza, culto e cerimonialità aristocratica sono quindi perfettamente integrati in un complesso che, guarda caso, viene distrutto attorno alla metà del VI sec. con un intervento, che nonostante qualche dubbio recentemente affiorato, mi sembra lecito attribuire a mano tirannica.

A Roselle l’edificio orientalizzante nell’area del foro, fino ad ora variamente interpretato (santuario? resi- denza del princeps?) dispone oggi di una lettura molto convincente: il vano a pianta circolare al centro è un luogo di culto, mentre i due spazi rettangolari ai lati sono ad uso abitativo per il principe (a ovest), e cerimo- niale (a est), riservato ai membri del gruppo che abitavano nelle capanne dislocate all’intorno e che potevano così assistere alla gestione dei sacra da parte dello stesso princeps, con una modalità che lascia intravedere gruppi gentilizi o clan assimilabili ancora una volta alle curiae.

A Populonia, sul Poggio del Telegrafo, in quella che poi sarà l’acropoli della città storica, alla fine dell’VIII sec. è documentata una residenza, prima capanna ovale, poi struttura lignea e infine edificio porticato coperto di tegole con chiare tracce di cerimonialità aristocratica che fa pensare a un palazzo, fulcro del potere politico e religioso (cat. 12). Attorno alla metà del VI sec., in sintonia con quanto accade nel resto dell’Etruria, l’area diventa la sede dei culti poliadici e di quelle attività collettive che fanno capo alla nuova comunità cittadina.

Oltre a questi casi nel cuore della città abbiamo alcuni esempi di altri palazzi in comunità minori del terri- torio, come nel piccolo abitato che si collega alla necropoli di Casa Nocera (Casale Marittimo) in prossimità della foce del Cecina, in un sito strategico per il controllo delle attività dello scalo e del territorio circostan- te, proprio come lo era Murlo. I defunti del sepolcreto dal quale provengono le due straordinarie statue di piangenti e nel quale è stato possibile riconoscere fondatori e discendenti del gruppo, abitavano in una re- sidenza di pianta rettangolare allungata, avvicinabile all’edificio della prima fase di Murlo, priva di terrecotte, ma comunque di buon livello, come testimoniano oltre che le vicine sepolture anche i preziosi kyathoi iscritti di tipo ceretano, largamente diffusi in Etruria settentrionale come doni preziosi tra personaggi di rango interessati ad allacciare rapporti di ospitalità (cat. 239.2). A questa residenza pose fine probabilmente un intervento del demos di Volterra, per interrompere l’autonomia dei reguli che l’abitavano, ancora una volta in perfetta sintonia con quanto accade nel resto dell’Etruria quando le aristocrazie finiscono.

Un altro aspetto da considerare con attenzione agli esordi dei centri proto-urbani è la presenza in alcuni di essi di sepolture anomale per la loro ubicazione nel cuore dell’abitato, per l’assenza di corredo, per l’ado- zione di un rito diverso da quello in uso nelle necropoli, per una serie di apprestamenti architettonici che ne prolungano la memoria. Divenute oggetto di venerazione da parte della comunità esse assumono evidenza e prestigio, anche con implicazioni politiche e ideologiche. Questo tipo di sepoltura, assolutamente ecce- zionale, comincia a essere abbastanza frequente in Etruria, anche se alcune testimonianze (Cerveteri, Veio- Campetti, forse Vulci) necessitano di verifiche e riscontri. Molto chiari al riguardo sono invece i due casi di

Veio-Piazza d’Armi, già ricordato, e di Tarquinia, dove il ben noto complesso sacro-istituzionale della Civita esordisce con la sepoltura antichissima (IX sec.) di un bambino affetto da epilessia attorno a cui si dispon- gono le sepolture di diversi altri individui, alcuni dei quali sicuramente sacrificati, in un contesto sacralizzato oggetto di progressiva sistemazione monumentale e architettonica, oltre che di prolungata devozione che, nella sua forma più piena arriva, guarda caso, fino alla metà del VI sec. Il deposito votivo dei bronzi, una trom- ba-lituo, uno scudo e un’ascia (cat. 89), simboli chiari dell’autorità del re-sacerdote, conferisce al complesso il carattere di un’area sacra e pubblica di grande rilevanza per la comunità. Manca al momento qualsiasi traccia di una residenza aristocratica, come forse ci si aspetterebbe.

A questi due casi se ne può aggiungere probabilmente un terzo nella lontana Pianura padana, a riprova di quanto certi processi siano generalizzati. A Bologna sull’altura di Villa Cassarini, dove era dislocato il villaggio di IX sec. attorno a cui, nel corso dell’VIII, si coagulano tutti gli altri per dare luogo alla città storica, sono docu- mentate due tombe a inumazione, la più antica delle quali di tipo anomalo, stando al rito e all’assenza del corredo (solo due fibule per il sudario), con tracce significative di atti rituali che richiamano la situazione veiente, con il valore aggiunto, nel caso di Felsina, che questo luogo diventerà poi l’acropoli della città urbanizzata.

Nelle grandi trasformazioni che nel corso del VI sec. segnano la fine delle aristocrazie, la città è teatro di nuovi interventi politici e di organizzazione urbanistica, che di solito regolarizzano situazioni più antiche, in due direzioni. In primo luogo si mette mano al potenziamento e alla monumentalizzazione degli apparati difensivi, che al di là di una ovvia funzione protettiva diventano anche strumenti per un’affermazione identi- taria e simbolica della città-stato nei riguardi sia della comunità urbana che dell’esterno. La città intesa sul piano politico come punto di equilibrio fra gruppi sociali ampliati e rinnovati rispetto alla precedente fase aristocratica si manifesta poi con la riorganizzazione dei culti e delle loro sedi, monumentali e pubbliche, co- me si osserva a Tarquinia con l’acropoli sul cucuzzolo della Castellina e il grande tempio poliadico sul Piano della Regina. È una predisposizione che troviamo esemplarmente documentata anche a Marzabotto dove ai templi dell’acropoli sulla collinetta di Misanello, si sono aggiunti ora i due templi di Uni e di Tinia sul pianoro della città. Essa trova riscontri puntuali pure a Veio, con un tempio dedicato a Uni sull’acropoli a Piano di Comunità e altri più in basso sul pianoro; e a Caere, con l’acropoli dislocata a sud-ovest del pianoro tufaceo e il tempio di Vigna Parrocchiale nel cuore della città.

Ma oltre ai templi dell’acropoli e a quelli del centro urbano, la cui ricorrente duplicità nella dislocazione avrà avuto sicuramente un significato, la struttura del sacro si manifesta anche nella disposizione dei templi ai margini dei pianori urbani, spesso in prossimità dei relativi ingressi che monumentalizzano, in una dispo- sizione che assume l’aspetto di una “cintura sacra” a protezione della città nella sua interezza. Gli dei, usciti dai palazzi e dalle residenze aristocratiche, sono ora al servizio dell’intera comunità cittadina che proteggo- no e salvaguardano dai pericoli e dal nemico. Questo è molto chiaro a Veio e a Cerveteri, ma lo è anche a Pontecagnano e a Capua, dove lungo il circuito delle mura sono dislocati diversi edifici sacri.

Gli importanti programmi urbanistici di questa nuova fase si coniugano inoltre con alcuni culti, nell’ambi- to dei quali va ricordata la straordinaria frequenza del culto di Vei dal forte significato politico. La dea, assi- milata alla greca Demetra e alla romana Cerere, tutelava la fecondità della terra e quella dell’essere umano, assumendo talora una spiccata natura infera che favoriva la rinascita. Anche sulla base delle analogie con Roma, dove la giovane repubblica appena costituita contrappose ai “santuari dell’acropoli” costruiti dai re, un grande tempio ai piedi dell’Aventino, dedicato a Cerere, Libero e Libera, il culto di Vei aveva sicuramen- te in Etruria una connotazione plebea, anti-aristocratica, ma anche anti-tirannica, in parallelo con l’ascesa di quel ceto popolare che possiamo assimilare al demos. Se questo è il significato e il peso politico di tale culto, non è un caso che esso sia molto diffuso. È infatti presente a Veio (Vei è la dea eponima della città), aCaere, a Pyrgi (insieme alla figlia Cava a), a Gravisca, a Vulci, a Orvieto e a Volterra; così come è largamente documentato in Etruria padana (Bologna, Marzabotto, Mantova e forse anche a Genova); ed è probabilmen- te presente anche in Campania, se la divinità Luas di Pontecagnano può in qualche modo esserle assimila- ta. Al di là delle sue prerogative religiose, Vei è in buona sostanza la divinità che si lega strettamente alla grande svolta che tra la fine del VI e gli inizi del V sec. il demos mette in atto in tutte le città etrusche. La radicalità storica di questo passaggio è talmente marcata che per l’Etruria padana e la Campania non si è esitato a formulare la teoria della cosiddetta “seconda colonizzazione”, uno schema interpretativo moderno che, anche se ispirato da una tradizione storica antica, va assolutamente superato. La grande svolta che in queste due aree si realizza nel corso del VI sec. non è dovuta all’arrivo di nuovi gruppi dall’esterno, ma è un cambiamento tutto interno alle comunità che qui erano attestate da tempo e all’emergere di un nuovo soggetto politico e sociale, responsabile di grandi trasformazioni storiche e territoriali.

Il sacro diventa quindi un formidabile strumento di potere e di governo. E a proposito del rapporto fra

“sacro” e “politico” resta aperto il grande problema di eventuali spazi o strutture specificatamente dedicate allo svolgimento delle attività pubbliche e politiche, come accadeva nel foro delle città romane o nell’agorà di quelle greche. Alcune scoperte recenti, anche molto significative, come ad esempio i templi di Uni e Tiniaa Marzabotto, affiancati all’interno di una grande area pubblica, non hanno portato novità al riguardo, visto che non sappiamo ancora se nella stessa area ci fossero edifici o strutture civili concretamente utilizzati per queste funzioni. Così come non lo sappiamo per l’area centrale della Civita a Tarquinia dove si collo- ca l’Ara della Regina, cioè il grande tempio poliadico della città, il cui spazio antistante destinato alla vita collettiva era sicuramente pertinente al foro. Ma si tratta di uno spazio e niente più. E in fondo anche per Pontecagnano si parla esplicitamente di piazza per l’area di via Bellini dove si trova il tempio di Apollo-Man, sicuramente un’area pubblica che però è priva di edifici. A tale assenza, generalizzata in tutta l’Etruria, fa per ora eccezione solo il cosiddetto edificio ellittico di Vigna Parrocchiale a Caere, interpretato come un edificio pubblico sul tipo del bouleuterion (o forse anche dell’ekklesiasterion) delle città greche o del comi- tium romano, interpretazioni che però si sono via via attenuate virando nella direzione meno impegnativa di un edificio, non a caso definito enigmatico, per generiche riunioni e assemblee o addirittura per giochi e spettacoli. Se è giusta l’ipotesi di un suo rifacimento in età claudia per accogliere il ciclo dei ritratti imperiali, con un’operazione che ha tutta l’aria del recupero in età romana di una più antica funzione pubblica di età etrusca, fatta tra l’altro dall’imperatore “etruscologo” Claudio, credo valga la pena di riprendere in esame questo complesso, anche nella speranza che nuove scoperte ci consentano di colmare l’assenza nel mondo etrusco di specifiche strutture urbanistiche e architettoniche destinate alla politica.

Gli Etruschi e il Mediterraneo: commerci e relazioni

La tradizione storica è concorde nel riconoscere agli Etruschi una presenza vivace e attiva nel Mediterraneo. Dionigi di Alicarnasso, nonostante ne abbia un’opinione sostanzialmente riduttiva, li definisce thalassokrátor- es, cioè dominatori del mare; e Cicerone li considera abili marinai e mercanti. Del resto sappiamo che sin dal- la nascita i centri proto-urbani, non direttamente sul mare, svilupparono scali che consentirono una intensa attività marinara, come ci conferma Eforo quando sottolinea che già prima della colonizzazione greca il mare di Sicilia era infestato dalla pirateria etrusca, sinonimo di commercio attivo e consolidato.

Nelle fasi iniziali esso è legato a meccanismi di ospitalità individuale tra re e capi, dai forti connotati ceri- moniali, che però non esauriscono la complessità del fenomeno, al contrario di quanto si è sempre pensato; successivamente può contare su spazi e strutture specifiche. Nel commercio così praticato i produttori delle merci (si pensi agli agricoltori per il vino o ai ceramisti per le anfore e i vasi), che pure dovevano lavorare con occhio attento alle sue esigenze e alle sue potenzialità, sono altra cosa dagli operatori dello scambio, che sono ora dei veri professionisti, specializzati nell’esercizio di questa attività. Oltre ai metalli, gli Etruschi erano in grado di mettere in circolazione prodotti dell’agricoltura (prima di tutto il vino, ma successivamente anche il grano), manufatti artigianali (ceramiche e bronzi) e di innescare su questa loro offerta un’equivalente domanda da parte dei loro partners commerciali dislocati sia a est, cioè verso la Grecia e l’Egeo, che a ovest, cioè verso la Gallia e la penisola iberica. Tra questi due poli si inserisce, come terzo elemento, Cartagine, con ruoli e funzioni diversificati a seconda degli ambiti geografici e delle fasi storiche.

La ricerca di minerali spinse i Greci verso Occidente con una colonizzazione avviata dagli Eubei poco prima della metà dell’VIII sec., ma preceduta da una vivace fase precoloniale di conoscenza che arrivò fino alla foce del Tevere, tra Veio e Roma, lasciando chiaramente intendere che i partner e i prodotti cercati erano gli Etruschi e i loro metalli. Ai Greci però non fu consentito, al momento della colonizzazione, di avvicinarsi alle zone minerarie controllate dagli Etruschi, per cui essi non riuscirono ad andare più a nord di Ischia e di Cuma, come forse avrebbero voluto, a riprova della solidità e della struttura fortemente unitaria del mondo etrusco, che fu in grado di fermare questa spinta e di gestire politicamente i rapporti, tutti interni ai suoi territori, tra le aree dei giacimenti minerari e quelle del contatto con i Greci.

Dopo circa 150 anni di predominio euboico-cicladico, subentrò quello greco-orientale. E furono i Focei, secondo Erodoto, ad avviare un’altra massiccia operazione di presenza nel Mediterraneo. La notizia trova una perfetta corrispondenza archeologica nel santuario di Gravisca, dove in quegli stessi anni viene aperto dai Focei un importante scalo marittimo sotto la protezione di Afrodite a cui viene dedicato un sacello. Tutta l’impresa si colloca a valle di un’autorizzazione accordata dall’autorità politica tarquiniese sia per l’esercizio di attività artigianali legate alla metallurgia (forni dove si lavorava ferro di provenienza elbana), che per lo

scambio vero e proprio, attuato con le opportune garanzie del santuario e forse con l’imposizione da parte della città di una qualche decima. È lo stesso modello di scalo che troviamo a Naucrati in Egitto, dove il faraone concedeva spazi alle città che lo richiedevano per esercitare il commercio all’interno di un ampio circuito mediterraneo. Ai Focei succedono a Gravisca prima i Samii e poi gli Egineti e attorno al 480-470 a.C. si assiste alla presa in carico dello scambio direttamente dalla città, ad opera del demos ormai padrone asso- luto della situazione e con un progetto politico che mirava al pieno controllo di tutte le attività economiche.

Oltre al caso particolare di Gravisca, si registra la creazione lungo le coste etrusche di una fitta rete di scali, almeno uno per ciascuna delle grandi città (ma in alcuni casi, come ad esempio Caere, addirittura tre), in una dialettica tra metropoli e porto sempre molto interconnessa, anche urbanisticamente, se si pensa alla via Caere-Pyrgi. In tutti questi scali arrivano merci greche di grande qualità in un quadro di relazioni, variega- to e complesso, che non può essere circoscritto solo agli aspetti commerciali, ma tocca in modo sempre più ravvicinato anche modelli culturali e ideologie. L’intensità e la profondità di queste relazioni lascia intuire che al di là del lavoro dei mercanti, sostanzialmente dei semplici intermediari, di fatto estranei agli interlocutori che mettevano in contatto, dovevano esistere rapporti più stretti tra i diversi partner di questi processi, rap- porti che passavano attraverso la presenza fisica di Greci tra Etruschi e di Etruschi tra Greci. Vanno quindi ricordati i molti artigiani greco-orientali che hanno lasciato tracce della loro presenza in Etruria attraverso i prodotti della loro techne, come ad esempio i maestri delle idrie ceretane o dei dinoi Campana; oppure gli intagliatori del marmo, una pietra che richiedeva competenze tecniche speciali sia nell’estrazione che nella lavorazione, concentrati nel distretto volterrano-pisano. Alcuni artisti che hanno firmato in greco i loro manu- fatti come Aristonothos a Caere e altri che hanno etruschizzato il proprio nome, come Arn e Praxias (Vulci) eMetru (Populonia), lasciano intravedere forti legami fra artigiani ateniesi e clienti etruschi. Ma al di là dell’am- bito produttivo e commerciale, l’attenzione va portata soprattutto su quei Greci che hanno lasciato traccia della loro presenza fisica in Etruria attraverso la documentazione epigrafica. Si tratta di un fenomeno che va ben oltre i grecismi di tipo culturale, largamente noti per l’Etruria, e che acquista una sorta di valore aggiun- to proprio per essere legato alla quotidianità e alle consuetudini di vita. Più che alle iscrizioni che rimandano a culti greci, come ad esempio quello di Hera a Caere, comunque importanti sul piano delle integrazioni tra i due ambiti, vanno considerate le dediche in greco in diversi santuari etruschi (a Pyrgi, a Populonia e a Pisa) e in particolare quelle che documentano l’intreccio tra culti locali e culti stranieri, come ad esempio la dedica a Demetra nel santuario di Pyrgi in cui era venerata la corrispettiva etrusca Vei. Ugualmente importanti i molti nomi greci etruschizzati, anche se per essi è meno puntuale e più sfumato nel tempo il momento della integrazione. Tra questi spicca la vicenda di Laris Pulena dell’omonimo sarcofago, pronipote di un Laris Pule,il “greco”, che si era trasferito a Tarquinia attratto dalla notorietà della mantica etrusca.

Sul versante greco la questione è ancora più interessante. Al di là degli importanti documenti legati alla politica e al contesto storico generale, come i ben noti donari etruschi nei santuari di Olimpia (Arimnestos) e Delfi (Caere e Spina) o, sempre a Delfi, il cippo dei Tirreni indicati ancora una volta unitariamente come “na- zione” a seguito della conquista di Lipari, ci sono alcuni interessanti documenti epigrafici “privati” e quindi legati a una quotidianità di rapporti che ha un peso notevole sul piano storico. Si pensi alla iscrizione etrusca su coppa laconica dal santuario di Aphaia nell’isola di Egina e a quella su gemma dal santuario di Perachora(Corinto), entrambe con un nome al genitivo e come tali considerate dediche di Etruschi lasciate in due santuari frequentati da emporoi e marinai; o ancora all’iscrizione dall’agorà di Atene, riferita a una donna, se si accetta la dittografia (atataias per ataias). Mentre un documento sicuro, anche se indiretto, è l’iscrizione di possesso tyrsanos sempre dall’agorà di Atene, in greco ma con l’etnico degli Etruschi (Tirreni) usato in funzione onomastica, per la quale si è giustamente pensato a un meteco etrusco che nel pieno VI sec. aveva ellenizzato, forse ad Egina per questioni fonetiche e grammaticali, il nome che ne indicava la provenienza.

Sono testimonianze di ben altro peso rispetto ai molti materiali etruschi che si trovano nei santuari greci (bronzi, armi, buccheri) e che però è molto probabile siano merci di ritorno o comunque oggetti donati da Greci, forse anche per suggellare il buon esito di imprese commerciali, come è sicuramente provato dal kantharos di bucchero etrusco con la dedica di un greco (Nearchos) nel santuario di Perachora o da un frammento sempre di bucchero dal santuario di Atena a Ialiso (Rodi) con lettere greche.

All’interno di questa circolazione commerciale ampia e multiforme meritano particolare attenzione le ceramiche attiche e la loro straordinaria diffusione in Etruria. Degli oltre 25.000 vasi figurati prodotti ad Atene e sparsi nel Mediterraneo, la stragrande maggioranza (nel caso di alcune forme o di alcuni pittori fino al 90%) viene dall’Etruria e non è assolutamente pensabile che gli artigiani ateniesi ignorassero questa gran- de potenzialità di sbocco per le loro produzioni. Su questo problema si sono fatti enormi passi avanti negli studi degli ultimi tempi. Partendo dalla posizione più arretrata che considerava gli Etruschi come semplici

e passivi acquirenti all’interno di una produzione realizzata per una committenza ateniese, oggi è più dif- fusa la convinzione che esistesse invece qualche relazione tra le iconografie dei vasi attici e le aspettative degli Etruschi, in ragione di una comprensione del loro significato oppure anche in conseguenza di qualche sollecitazione che gli stessi Etruschi erano in grado di fare pervenire alle officine del Ceramico attraverso intermediari, qualora colga nel segno l’ipotesi sempre più accreditata di artigiani etruschi presenti e attivi nello stesso Ceramico di Atene.

Ma esiste anche la possibilità di richieste dirette e del tutto speciali da parte degli Etruschi alle botteghe del Ceramico, che non esitarono in questi casi a creare immagini nuove, al di fuori delle loro consuetudini artigianali per soddisfare le esigenze di quella che era la loro migliore clientela in tutto il Mediterraneo. Sono livelli differenziati di produzione oltre che modalità diversificate di relazioni tra produttori e acquirenti, che non sono da considerare in alternativa, ma che convivono e si affiancano per oltre un secolo con esempi sem- pre più chiari ed espliciti. Non mancano tra l’altro casi di commissioni speciali al Ceramico fatte da un’intera comunità. A Pyrgi nel santuario meridionale viene offerta, probabilmente dal demos di Caere, una grandephiale attica con la raffigurazione del massacro dei Proci da parte di Ulisse, un tema non solo assai poco frequentato dai pittori del Ceramico, ma anche messaggio di condanna per coloro che sovvertono l’ordine e le leggi universali, in perfetta sintonia ideologica e politica con la coeva scena dell’assalto dei Sette a Tebe del frontone posteriore del Tempio A, il cui progetto architettonico e decorativo era portatore di un analogo messaggio di condanna per ogni tipo di hybris.

Diverse le novità sul commercio etrusco verso Occidente relativamente alla sua estensione e soprattutto alla sua organizzazione, con una forte rivalutazione del ruolo degli Etruschi e del loro peso storico ed econo- mico. In questo caso sono gli Etruschi a cercare le materie prime assenti in Etruria, in particolare lo stagno, ma anche l’oro e altro; e a offrire in cambio i prodotti della loro agricoltura, in particolare il vino, e del loro artigianato, come bronzi e ceramiche. Il fulcro di queste attività è la colonia di Marsiglia fondata dai Focei al tempo di Tarquinio Prisco, attorno al 600 a.C. in perfetta sincronia con Gravisca. Ma consistenti contatti sono già in atto nella seconda metà del VII sec., cercati e voluti soprattutto dagli Etruschi, ai quali spetta in questo ambito un chiaro primato cronologico rispetto ai Focei e ormai viene loro riconosciuta una solida pre- senza in tutto il Mediterraneo occidentale, fino alle Colonne d’Ercole e anche oltre, contrariamente a quello che pensavano fino a qualche anno fa diversi studiosi. Anfore e ceramiche etrusche, in particolare bucchero, sono ben documentate sia negli scavi urbani di Marsiglia che nei più occidentali siti indigeni di St. Blaise e Lattes, dislocati tra Marsiglia e Ampurias (anch’essa focea), a cavallo del fiume Rodano e della sua foce.

E del resto la troppo facile attribuzione a naukleroi greco-orientali di alcuni importanti relitti come quello del Giglio, del Gran Ribaud (Tolone) o addirittura quello di Antibes, appartiene a una fase ormai superata degli studi. Sul piano del metodo, oltre alla coerenza e alla consistenza del carico (nel relitto di Antibes ci so- no 180 anfore etrusche e solo 3 greche, assieme a una quantità esorbitante di buccheri e di ceramiche etru- sco-corinzie), sono dirimenti per individuare la proprietà dei relitti le modeste ceramiche di uso domestico da riferire all’equipaggio e alle sue abitudini alimentari, e la documentazione epigrafica. Risulta chiaro quindi il ruolo determinante degli Etruschi in tutto il commercio occidentale e nel caso del relitto del Gran Ribaud, il cui carico è sicuramente etrusco, ma l’imbarcazione è stata ricondotta a una tecnologia navale tipicamente greca, si può pensare ad un costruttore greco (o a una tecnica artigianale greca) al servizio di un mercante etrusco, oppure all’acquisto di una nave, come è puntualmente documentato dalla lamina in piombo di Pech Maho. Questa ha due iscrizioni, una in greco e una in etrusco, relative a un contratto di vendita tra privati, stipulato a Marsiglia, con l’esplicito riferimento, in quella greca, all’acquisto di un’imbarcazione. Le iscrizioni d’altra parte sono una prova della presenza stabile di Etruschi nei siti costieri della Linguadoca ad alcuni dei quali, come Lattes, essi riuscirono a dare un’impronta di tipo para-urbano in cui erano maestri. Non si tratta di colonie, ma di abitati indigeni in cui gli Etruschi avevano predisposto dei fondaci dove abitavano stabil- mente per controllare i loro commerci in un vasto arco costiero che la stessa tradizione storica attribuisce loro, stando al periplo dello Pseudo-Scilace secondo cui da Antion/Antipolis fino a Roma c’erano gli Etruschi. L’ampia estensione di questo controllo costiero trova una puntuale conferma nella straordinaria vivacità di siti e scali su tutta la costa della Liguria e dell’Etruria a nord di Pisa, lasciando intendere che alla navigazione d’altura continuava ad affiancarsi un percorso di cabotaggio in prossimità della costa, che tra l’altro facilitava e garantiva l’accesso alle zone interne.

Un’altra novità di questi ultimi decenni è la forte proiezione occidentale di questo commercio, ancora una volta sotto la spinta e con il controllo prevalente degli Etruschi. Sia al di qua (Malaga) che al di là (Huelva, l’antica Tartesso) delle Colonne d’Ercole sono ormai talmente tanti i materiali etruschi e di tale qualità da autorizzare l’ipotesi di una loro frequentazione di questi luoghi, diretta e senza mediazioni, né di Focei né

di Fenici. Anche perché ai materiali etruschi, che in linea teorica potevano essere veicolati da altri, si ag- giungono importanti influssi culturali come le stele con iscrizioni su rotaia rinvenute nel sud del Portogallo o alcune statue-cinerario nell’alta Andalusia, entrambe con legami molto profondi con l’Etruria settentrionale e la Liguria, forse veicolati oltre che dal commercio, dalla circolazione di mercenari, reclutati da Etruschi, tornati in patria con un bagaglio di conoscenze e di stimoli acquisiti nelle terre dove avevano praticato le loro attività militari.