DANIEL EZRALOW risponde anche sull’Italia e le sue ricchezze

OPEN - foto di Angelo Redaelli - IMG_5307OPEN – tour 2014

DICHIARAZIONI DANIEL EZRALOW SULLO SPETTACOLI

Ezralow, è la prima volta che le sue coreografie sono interpretate solo da ballerini italiani?

D «Sì, e trovo che sia molto stimolante avere ballerini nuovi, tutti bravissimi come i vostri. La grande forza dell’Italia è di avere compagnie così. Io ho una compagnia a progetto, e dopo ogni spettacolo si scioglie. Invece è una grande opportunità dare continuità al proprio lavoro. Lo so che in Italia avete una grande crisi, ma mi lasci dire che è bello investire sui giovani italiani, in un paese fortissimo come il vostro.

C’è solo un periodo economico difficile, che sono certo passerà presto. Non dovete mollare».

Su cosa dovrebbe puntare l’Italia, secondo lei che la vede da fuori?

«Dovete puntare su tutto. Avete una ricchezza di conoscenze dalla scienza, al business, la matematica, la moda, l’arte. C’è una politica instabile al momento, ma guardate che in Italia non c’è la guerra e avete buoni rapporto con tutto mondo. Gli italiani devono essere forti. Lavorando con voi ho apprezzato la capacità dell’improvvisazione, siete capaci di adattarvi alle difficoltà e di cambiarle a vostro favore.

Guardate che sono pochi i paesi al mondo ad essere così. Io da voi mi sento in famiglia e dico solo una cosa: “Andiamo avanti ragazzi”».

Anche in «Open», dove si alterna musica classica e danza contemporanea, il tema è la speranza.

«Lo spettacolo nasce dalla frase che mi ha detto un rabbino: fra un cuore intero e uno spezzato, preferisco quello spezzato perché tra le fessure si intravede la luce. Anche nel dolore c’è una via per la bellezza e per la speranza: a questo si ispira il mio spettacolo.

Uno spettacolo fatto da giovani per i giovani».

Perché «Open»?

«È come dire: apriamo le finestre, le braccia, le orecchie, gli occhi: è un invito ad accogliere la bellezza del movimento e, allo stesso tempo, apprezzare la musica classica attraverso brani di Chopin, Bach, Debussy. Un inno alla gioia. Con un filo conduttore, il rispetto per la natura: in scena saranno piantati alberi e ne regaleremo anche al pubblico…».

L’effetto?

«L’intento è che lo spettatore esca dal teatro sollevato, che il giorno dopo impari ad affrontare la vita quotidiana con una ritrovata allegria dopo aver visto qualcosa di davvero bello».

Lei ha pensato ad una parte del balletto per la cerimonia di apertura dell’Olimpiade di Sochi…

«Sì, è stata un’esperienza indimenticabile: abbiamo lavorato al progetto per un anno. I colleghi russi mi hanno dato carta bianca e ho potuto esprimermi in tutta libertà».

È vero che ha mollato il football americano per la danza?

«Sì, sono un atleta mancato: praticavo il football al liceo, ma ero troppo scarso. All’università mi sono reso conto che ero troppo basso e poco veloce. Così ho lasciato perdere e mi sono dato alla danza».

Dove trova l’ispirazione?

«Tutti i progetti e le persone che ho incontrato mi hanno insegnato qualcosa e influenzato».

Anche Celentano?

«Certo! Lui mi ha colpito per la sua pazza creatività. Ma sono stato fulminato anche dagli altri grandi artisti. Per esempio da Fiorello: lui è improvvisazione pura».

Ha lavorato persino a un talent show come «Amici».

«Sì, lì potevo esprimere una concezione diversa di danza, diversa da quella tradizionale, classica o moderna che sia».

Lei è sostenitore della danza a corpo nudo…

«È il massimo. Però mi rendo conto che il pubblico può sentirsi a disagio. In questo ultimo spettacolo non ho scelto quello integrale perché non voglio imbarazzare nessuno, ma solo accompagnare gli spettatori in un viaggio verso la felicità…».

Per la commistione di stili e influenze, qualcuno ha definito la tua danza “transgender”. Ti ci ritrovi in questa definizione?

Questo termine in genere si usa in altri ambiti, non la vedo molto calzante per la mia arte. Io sono piuttosto ecclettico nel mio modo di lavorare. Non è solo teatro e danza, non è solo Broadway o cinema o televisione. Ho una visione molto ampia forse perché sono arrivato dalla danza quando ero abbastanza grande, avevo 19 anni, e la danza per me è un’espressione, non è questione di che tipo. Certo, ci sono i generi, c’è il classico e il moderno, ma alla fine la sua grandezza è nella possibilità espressiva. E il mio obiettivo è sempre quello di non creare ostacoli alle possibilità.

Che caratteristiche deve avere un ballerino perfettto per una tua coreografia?

Intanto non credo che esista il ballerino perfetto per una coreografia., Perfetto significa che è finito, non c’è possibilità di ulteriore ricerca. I ballerini con cui lavoro meglio sono quelli aperti alla sperimentazione. La danza non è matematica, o almeno lo è solo in parte. Nella sua esecuzione è molto scientifica. Ma da un altro punto di vista, quelle delle possibilità espressive, non c’è nulla di scientifico. Un ballerino per me è ovviamente qualcuno con un fisico adeguato, sicuro di sé, bravo tecnicamente, ma soprattutto deve essere aperto, disponibile a provare, curioso verso le novità.

Quell’aggettivo “aperto” è il titolo dello spettacolo. Rappresenta la tua filosofia di danza?

Assolutamente sì, è stata proprio questa la ragione per cui lo abbiamo intitolato così. Non c’è un punto di vista politico e nemmeno ci sono significati altri dalle cose che vedi in scena. Tutto quello che fa è dire: “Siate aperti, provate a esserlo”. Se ci riuscite, apprezzerete di più lo spettacolo. Ci sono molti show in giro, Milano è piena di teatri con in scena spettacoli interessanti. Se uno vuole scegliere qualcosa che abbia un significato politico o altro, può farlo. Io voglio dare la possibilità di venire a guardare qualcosa che scaturisce da una mente aperta, e un cuore altrettanto libero, e tu sei libero di prenderne ciò che vuoi. Poi se la gente ne trae un po’ di ispirazione, potrebbe trovare un po’ più di gioia nel vivere la vita giorno dopo giorno. E’ molto semplice.

Qualcuno però ha visto nello spettacolo un messaggio ecologista. Non è così?

Sì, c’è sicuramente una portata ecologica. Sono convinto che per salvaguardare il nostro pianeta, e quindi noi stessi, sia nostro dovere riciclare, non sprecare l’acqua e avere grande rispetto per l’ambiente.  Questo è presente nel mio lavoro e quindi anche nello spettacolo. Ma l’ecologia non è politica. La politica prova a influenzare qualcuno dicendogli cosa è giusto fare, non sono queste le mie intenzioni.OPEN TOUR 2012/2013

Perché ha scelto la musica classica tradizionale? «Perchè è troppo banale costruire un balletto sulla musica rock o elettronica o sulla musica classica trasformata in musica rock. Ho scelto proprio la più tradizionale e conosciuta musica classica, come i Notturni di Chopin e le musiche più famose di Rossini, Beethoven, Bach. Creano un bel contrasto».

Ha scelto l’Italia o l’Italia ha scelto lei? « Non lo so, credo che ci siamo scelti reciprocamente. La mia seconda casa, dopo Los Angeles, è qui. Ci sono sempre stato bene, fin dalla prima volta che ci ho messo piede. Sia al nord che al sud, io non vedo differenze».

Danza, televisione, cinema: ma lei sa fare proprio tutto? «Non lo so, però ci provo. Sono molto eclettico, non so fare delle scelte e quindi faccio tutto. Ma sempre con molta umiltà ».

Il teatro è in crisi come tutto il resto. Il balletto sembra meno in crisi. E’ vero? E’ d’accordo? «L’arte in generale è l’unica arma che l’uomo possiede per superare la crisi, perché dà gioia, voglia di vivere e un senso alla vita. E’ proprio nei momenti di crisi che, chi ce l’ha, tira fuori tutta la sua creatività. L’arte è una delle rare cose che non può andare indietro, ma solo avanti ».

Si può davvero cambiare il mondo con la danza? «Io penso che non cambio nessuno con un’idea, non voglio essere politico, penso invece che cambio qualcosa con l’energia. Vorrei che chi vede lo spettacolo avesse una buona sensazione e poi potesse trasmetterla a qualcun altro e così via. M’immagino una cascata di gioia che si diffonde, questo è quello che con la danza posso raggiungere». 

Ma cos’è la danza per lei e come ha cominciato? «Ho cominciato tardi, all’università studiavo medicina e mi dedicavo allo sport, poi mi avvicinai alla danza con un corso e mi prese la febbre che non mi ha più lasciato. Ci vollero però una decina d’anni prima di creare una coreografia. È stato un passaggio metamorfico, da atleta alla danza. La danza per me è la vita, è un’energia dentro di noi, universale, noi siamo nati col movimento, è come l’ossigeno nell’aria».

Il carattere principale della sua danza? «Penso la leggerezza, anche in questo spettacolo tratto il tema del riciclo per esempio, ma in modo accessibile, con ironia e leggerezza. Ecco questo per me è fondamentale».

Ezralow, lei ai tempi dei Momix ha rinnovato la danza rendendola popolare, atletica e collaborando anche con rockstar come gli U2. Ora, invece, punta sulla classica. È tempo di un cambio di rotta? L’artista deve sempre de-costruire per rinnovarsi, è fondamentale per la creatività. In questa fase della mia vita mi rendo conto che la musica classica è molto moderna. Bach, ad esempio, è pazzesco. Se lo ascolti, dopo non ti piace più neanche il rock. Sottolineo questa modernità attraverso coreografie piene di vita ed energia, venti quadri su altrettanti famosissimi brani.

Lei ha fiducia nei giovani? Moltissima. Io ho cresciuto generazioni di ballerini e ho sempre cercato di chiedere a loro in modo leale cosa volessero davvero dalla vita, cosa sentissero dentro di sé. I più giovani sono cresciuti con dei nuovi valori che noi non avevamo, come il rispetto per l’ecologia. Lo vedo in mio figlio che a dieci anni nella sua scuola di Los Angeles segue programmi innovativi sul rimboschimento. Saranno loro a salvare il mondo».

Teatro, cinema, tv, musica, moda, sport: in trent’anni di carriera ha sperimentato tutto. Ma dove si trova più a suo agio? «Ogni volta trovo un modo diverso di esprimermi, che sia Martha Graham, i Momix o Broadway. Quando ho iniziato a danzare volevo solo capire come saltare. Poi ho cercato la perfezione del movimento. Ora non penso più a cosa fare, ma a cosa accade intorno al corpo. Ho capito che la danza esiste perché siamo vivi. Già il battito del nostro cuore è un movimento che ci spinge a ballare e ci accompagnerà per tutta la vita».

Ha lavorato per Sting, gli U2, Fiorello, Celentano, David Bowie. Chi è stato più difficile da accontentare? «Forse Vittorio Gassman. Abbiamo lavorato insieme in “Ulisse e la bianca balena”. Aveva un grande ego e a volte era molto crudo, ma era sempre teso a creare. In generale per me l’Italia è un grande laboratorio creativo. Mi ha dato la possibilità di sperimentare come da nessun’altra parte. E di essere sempre “open”, aperto».

Essere diventato un divo nell’universo Momix l’ha aiutata per continuare la sua carriera al top, o la obbliga a fare sempre riferimento alle origini? «Niente del passato è un vincolo per me – risponde Daniel – ma solo una crescita professionale. Io sono cresciuto, cambiato, evoluto e non sono certamente più lo stesso di ieri, ma le origini sono importanti perché hanno contribuito a formare il Daniel di oggi ».

Sicuramente la sua grande fama attuale in Italia è dovuta alla televisione. Quali sono i programmi che ha amato di più fare? «Non penso di essermi conquistato una fama solo grazie alla televisione. Sicuramente Sanremo e “Amici” hanno accresciuto la mia popolarità, ma in Italia ho fatto anche pubblicità, cinema e teatro. “Amici” è sempre molto divertente e fresco, ma devo dire che Sanremo è un impegno concitato, emozionante e coinvolgente dove ognuno cerca di dare il meglio di sé in tempi strettissimi ».

Tra il festival di Sanremo e i musical cosa cambia nel suo lavoro di coreografo? «Cambia molto nella creazione della coreografia, soprattutto nei tempi. In televisione le coreografie sono brevi, di pochi minuti, e devono subito essere d’impatto, in teatro invece è esattamente il contrario. Inoltre il musical è un prodotto che dura nel tempo e la coreografia si ripete all’infinito. Ad esempio “Spiderman” è ancora in scena e le mie coreografie con lui».

Qual è la differenza tra lavorare in tv e lavorare per la scena? «Il teatro è vivo, lo spettacolo è in scena ogni sera in modo differente. Cambia il pubblico, il luogo, il feeling dei ballerini, gli applausi. Questa è la grandezza del teatro ».

Le sue coreografie sono ricche di energia, leggerezza. Possono aiutare i giovani ad avvicinarsi alla classica? «Assolutamente. Dagli anni Ottanta in poi si è instaurato un legame fortissimo tra la danza e la musica pop o rock. I musicisti hanno affidato ai coreografi i videoclip delle loro canzoni, e i ballerini delle grandi accademie si sono ritrovati a interpretare i Beatles. In questa idea, però, non c’è più niente di nuovo. La novità, invece, è vedere un ballerino jazz o hip hop che danza sull’ouverture del Guglielmo Tell di Rossini. La classica oggi ha tanto da dire, in questo senso è nuovissima».

Non la pensano così tanti giovani che, per tentare la sorte nel mondo dello spettacolo, fuggono all’estero.

«Ma forse io mi sono sentito così libero in Italia proprio perché non sono italiano. Parlo la vostra lingua, so cucinare gli spaghetti e i risotto ma resto uno straniero, un americano di origini ebreorusso- polacche. Per trovare se stessi bisogna andarsene, e poi magari ritornare. Viaggiare è fondamentale, non bisogna averne paura».

Che effetto le ha fatto lavorare ad “Amici”? «Mi è piaciuto, anche se l’aspetto della competizione non mi appartiene minimamente. Però Maria De Filippi mi ha permesso di dare sfogo alla mia follia, perché il teatro per me è quasi una religione. Ho cercato di insegnare ai giovani a tirare fuori il genio che hanno dentro, indipendentemente dal loro collo del piede».

Come si passa da un genere all’altro? «Non è sempre facile perché devo cambiare cappello, capire cosa succede. Ma ora ho capito un po’ quali sono le esigenze della televisione, del cinema, ambiti dove comunicare l’urgenza della danza e del movimento non è sempre facile».

Dove vive? «Vado avanti e indietro fra Italia e Stati Uniti. Vivo a Los Angeles, ma da venticinque, trent’anni ho un rapporto costante con il vostro paese. Per me è diventato un posto vicino e creativo».

Perché lo spettacolo si intitola “Open”? «Per tanti motivi. Il titolo fa riferimento all’apertura culturale, ma anche stilistica, perché ho sempre il problema di definire il mio tipo di danza. Mi piace mescolare. La mia formazione non è classica, quindi ci sono poche punte. Non è neanche la break dance, quindi non roteo tanto sulla testa. Ma posso usare ognuno di questi elementi per comunicare il senso del momento. Il titolo, poi, è anche la parola in sé, con le sue quattro lettere molto bilanciate. Le vedo e nella mia testa succede qualcosa. Open vuol dire aperto al mondo, al lavoro, al business, agli altri».

Ha una casa in Maremma con un uliveto… «E’ un rudere, ma, intorno, ci sono 450 ulivi che hanno prodotto già una sessantina di litri d’olio. L’olio, col caffè, sono gli alimenti che amo di più». Due sapori molto mediterranei. Del resto, il pubblico italiano le ha sempre fatto ponti d’oro.

Come definirebbe la sua danza? «La mia danza è fisicità, ironia, leggerezza e tanta gioia. Non voglio un pubblico annoiato, ma felice e convinto. Che quando esce dal teatro porti via qualcosa attraverso gli occhi. Voglio sorprenderlo. La musica classica che ho scelto è alla portata di tutti, come nel film Fantasia di Disney. Beethoven miconsente di piantare un albero in scena, che poi regalo al pubblico. Il messaggio è quello di ripiantare un nuovo mondo. Ho un figlio di 12 anni e uno appena nato: questo è ormai il loro mondo. Dobbiamo rispettarlo».

Quali altri significati nel suo Open? «Il contrasto tra città e natura. Non è mia intenzione raccontare una storia, il clima è piuttosto astratto. Sono i vari elementi insieme a fare la storia. Il filo conduttore è che attraverso la città arrivo alla natura. I danzatori metà spettacolo sono vestiti, metà nudi ma dipinti. Io ho molte storie nella testa e nel mio corpo, ma il mio sguardo esterno è mia moglie Arabella, ex attrice di cinema e tv».

Come mai ha scelto come titolo Open? «In un primo tempo avevo pensato a Recostruction, pensando a Calvino. Dobbiamo rimuovere, ricostruire. Ma il titolo non funzionava. Mia moglie mi ha suggerito Open: unaparola bella in cui c’è tanta energia. Aperti possono essere il cuore, la mente, gli occhi, una finestra. Bisogna guardare al presente senza remore, appunto con mente aperta. La vita è spesso pesante, ma abbiamo tanta energia positiva che aiuta a risolvere i problemi».

Quale è il suo linguaggio? «A 19 anni ho scoperto che potevo esprimermi e raccontare col corpo. Il linguaggio nasce dal corpo che è il nostro strumento. La tecnica è solo un modo di esprimersi. A differire sono solo le finalità. La danza è anche per strada, non solo nelle sale prove o nei teatri».

Lei negli 80 con Momix e Iso aprì una nuova danza contemporanea anche giocosa, atletica. Danza di successo mondiale che in questo tempo però sembra accusare il passo. Intravede un’altra nuova danza per questi nostri giorni? «Non saprei, sono una persona che ha dedicato la vita alla creatività del movimento in ogni spazio: palcoscenico classico, Broadway, televisione. Per me l’atto creativo è sacro e può insorgere dalla cosa in apparenza più inutile. Nell’inseguirlo, le mie cellule provocano una reazione che fa vivere l’opera stessa. Non posso quindi dire dove sta andando la danza, semplicemente perché la danza è molto più grande di noi ed è un istinto per me. L’importante è essere nell’oggi con il proprio bagaglio, perché è lo spirito che cambia. Oggi non posso più coreografare come facevo nei Momix!».

Rivela una energia di vivere che fa bene alla gente e all’Italia, paese che frequenta spesso. «Amo l’Italia, c’è affinità fra me e la gente, ogni volta che vi atterro respiro quiete, serenità interiore. In Maremma possiedo degli ulivi per fare l’olio. Perché il mio intento è di coltivare un orto sano con ogni prodotto, come sto facendo a Los Angeles. Per non lasciare a mio figlio di 10 anni soltanto un mondo di plastica. Certo, è faticoso “e s se r c i”, ma non c’è senso di vivere un altro giorno se non continuando a fare, ad agire. E senza giudicare noi stessi, perché non porta a nulla»

Cosa ha voluto dire con OPEN?

«Open è un manifesto militante contro gli inquinamenti dell’anima, della mente, del corpo, dell’ambiente. Dobbiamo essere laici nell’aprirci al cuore e alle idee come al business», continua Ezralow. Il mondo ci scorre addosso, se riusciamo a commuoverci e applicare lo stesso principio al tempo del lavoro, passione e curiosità contribuiranno a fare di noi degli uomini, cittadini, amanti migliori. Ecco perché ho scelto di piantare degli alberi in scena. La danza semina curiosità e desiderio. E ci dice che il corpo invecchia ma è unico. Bausch, Nijinsky, Baryshnikov, l’immenso Nureyev ci hanno ricordato che si può andare oltre il riflesso narcisistico della giovinezza, che un corpo può andare oltre la sua perfezione, la sua bellezza. Rudolf mi ripeteva sempre che un ballerino giovane è un corpo perfetto privo di saggezza. Quando invecchi impari che il tuo oltre è fatto di movimenti non atletici, di passi consapevolmente saggi. Puoi finalmente godere di una danza che parla con il suo sangue, e si fa poesia».